ANNA
divagazioni notturne
28 maggio 2020
Anna | Stefano Manera Blog

10 minuti possono passare in un baleno, così come possono sembrare non finire mai.

Il tempo del resto è relativo, sebbene noi lo si possa misurare con strumenti precisissimi, costosi e persino preziosi.

10 minuti sono il tempo necessario per percorrere la strada tra il pronto soccorso dell'ospedale San Carlo Borromeo e via Severoli con una macchina lanciata in piena notte ad alta velocità, a sirene spiegate, senza fermarsi ai semafori rossi.

Il tempo è relativo e poche ore possono riempire per anni i tuoi pensieri, diventando eterne.

 

Il pubblico ministero è un uomo giovane, credo più giovane di me e mi parla con gentilezza, non appena il presidente della corte di assise del tribunale di Milano mi fa sedere per la mia deposizione, subito dopo aver giurato.

In aula fa caldo, mi allento un poco la cravatta, ma sento ugualmente il sudore che mi riga la schiena.

L'aula è gremita di giornalisti, giovani avvocati, studenti di giurisprudenza, ma è invasa da un silenzio irreale.

 

Io non sono abituato alle aule di tribunale, così tetre, con i loro soffitti alti e le gabbie ai lati che chissà quante storie terribili avrebbero da raccontare.

Mi fa impressione essere qui e mi inquieta ritrovare loro davanti ai miei occhi, seduti al banco degli imputati che mi fissano e che forse nemmeno si ricordano di me.

Iniziano le prime domande del pubblico ministero, le formalità. Lui mi fa sentire a mio agio e mi fa capire la sua umanità.

Finite le formalità, il pubblico ministero mi domanda: "Dottore, ci può raccontare cosa è successo quella notte?".

Guardo il pubblico assiepato in aula, il presidente, la giuria e gli imputati: i genitori.

E inizio a parlare.

 

10 minuti possono passare in un baleno, così come possono sembrare non finire mai.

Quella fredda notte di febbraio, verso le 22, mentre sono di turno in automedica, ricevo una chiamata dalla centrale operativa, un rosso: "Buonasera, ti invio su un arresto cardiaco di un bambino di 9 mesi; stai attento perché in casa c'è molta confusione. Inviamo le forze dell'ordine. Buon lavoro".

 

Mi metto al volo la giacca e in pochissimi secondi siamo in macchina, già diretti verso la casa.

10 minuti di strada in cui inizio a dire ai ragazzi dell'equipaggio cosa dovremo fare e quali saranno i rispettivi ruoli, poche parole perché siamo tutti professionisti con anni di lavoro sulla strada, ma la tensione è palpabile, forse anche la paura, perché non si vorrebbe mai essere chiamati in emergenza su un bambino.

 

Enrico, l'infermiere, indossa i guanti, è un po' nervoso, controlla che nel suo marsupio non manchi nulla e respira rumorosamente.

Nel tragitto chiudo per un attimo gli occhi e cerco di pensare ai miei figli che a quell'ora stanno già dormendo, cerco un luogo a me caro e respiro a fondo, perché ho bisogno di richiamare tutta la calma e la concentrazione possibili; è strano ma apprezzo quanto il sedile della macchina sia accogliente.

Arriviamo, facciamo le scale di corsa portando con noi tutta l'attrezzatura.

Sono il primo a entrare in casa, le forze dell'ordine ancora non sono arrivate.

Il padre mi sta aspettando sul pianerottolo e continua a ripetermi: "non so cosa sia successo! non so cosa sia successo!".

La bambina è sdraiata supina sul tavolo del piccolo tinello, al suo fianco un posacenere ricolmo di cicche, indossa soltanto un pannolino, più grande della sua misura, la sua pelle è pallida, non si muove.

Sento un brivido e una stretta allo stomaco e il mio sguardo va alla madre seduta silenziosa sul divano, indossa occhiali tenuti insieme con del nastro adesivo.

In casa c'è un forte odore di fumo e di chiuso che prende alla testa e che ti accoglie come un pugno in faccia.

Tutto è fermo, non sento rumori, il silenzio è assoluto, mi pare che tutto si muova a rallentatore.

Vedo un signore vicino alla finestra, il nonno, in piedi immobile, tiene una mano sul volto e al di là  dei vetri, sul piccolo balcone buio, un cane di grossa taglia che abbaia rabbioso.

Al di là dei vetri il cane, la pioggia e il freddo di una notte di febbraio a Milano.

Il mio cervello registra tutte queste immagini e sensazioni in poche frazioni di secondo, sufficienti però a farle imprimere indelebilmente nella mia memoria.

In un attimo siamo sulla bambina: è fredda, pallidissima, sembra una bambola di porcellana di quelle che usava mia madre da bambina.

Mi metto alla testa, poche parole, l'infermiere e il tecnico sanno cosa fare precisamente, senza bisogno che glielo si dica.

La intubo rapidamente, la mia mano racchiude tutta la sua testolina, sento la fossetta della fontanella, mi avvicino al suo volto e vedo che le guance e i suoi occhi sono troppo incavati, noto immediatamente che qualcosa non va.

Chiedo stizzito di allontanare il portacenere, faccio molta fatica a mantenere la calma e inizio il prima possibile il massaggio cardiaco, mentre chiedo a un soccorritore arrivato subito dopo di noi di ventilare dolcemente la bimba col pallone Ambu.

Anna è fortemente disidratata, non riusciamo a reperire le vene per infondere i farmaci e la situazione è disperata, non abbiamo tempo, nemmeno un secondo da perdere, così ricorriamo all'accesso intraosseo al piatto tibiale.

Enrico è bravissimo e in pochi istanti compie la manovra: ora possiamo infondere i liquidi necessari e l'adrenalina.

È impossibile percepire il polso e il monitor conferma l'assenza completa dell'attività cardiaca.

Mentre i ragazzi continuano alla perfezione le manovre di rianimazione, io visito la bambina in tutto il corpo; tutto dev'essere eseguito attentamente e rapidamente, devo escludere che vi siano lesioni o traumi di altra natura.

Nel frattempo sono arrivate le forze dell'ordine, la polizia e i Carabinieri: un esercito.

Il cane, bagnato dalla pioggia, abbaia sempre più forte e colpisce i vetri della finestra quasi a volerli rompere.

Il padre viene tenuto a distanza, mentre sul divano una donna poliziotto parla con la madre che non piange, che tiene le mani sulle ginocchia e che sembra attonita e non consapevole di quanto stia succedendo.

Il corpo della piccola è freddo e già un po' rigido; quando la sollevo per vederle la schiena, noto la presenza delle macchie ipostatiche.

Faccio avvicinare Enrico, un maresciallo dei carabinieri e un ufficiale di polizia, faccio loro vedere quei segni sul corpo di Anna e ordino di sospendere le manovre.

Nessuno dice nulla, hanno capito.

 

Nella mia vita da medico ho avuto molti casi impegnativi, alcuni dei quali mi accompagneranno per sempre, casi che ti rimangono addosso rischiando di farti vivere per il resto dei tuoi giorni con il sapore di un dolore malamente celato.

Questo caso è esattamente uno di quelli, lo capisco nell'attimo esatto in cui lo sto vivendo e proprio in quel momento, mentre sono ancora chino su quel piccolo corpo freddo, penso ancora una volta ai miei bambini che a quell'ora stanno dormendo nei loro lettini e penso che vorrei correre da loro per abbracciarli, dire loro che li amo immensamente e che mai dovranno avere paura.

Mi sfilo i guanti.

Il cane fuori abbaia, ma non lo sento più, vedo solo che apre e chiude la bocca, accecato dalla rabbia.

Chiudo gli occhi e tiro un lungo respiro e poi un altro ancora. L'odore di quell'appartamento è insopportabile.

La poliziotta mi guarda, sembra una scena al rallentatore, ora è tutto lento e sul misero tavolo del tinello giace il corpo senza vita di una bambina di 9 mesi.

Vado dal padre, ci sono due carabinieri al suo fianco, mi metto di fronte a lui e lo guardo negli occhi per qualche istante prima di parlare. So che potrebbe colpirmi, mi è già successo, ma in quel momento non mi interessa.

"Mi dispiace, Anna è morta" e gli tendo la mano, lui me la stringe, non piange.

"Come è morta? Ma cosa dici? Non è possibile."

Ricordo quanto mi abbia impressionato l'assenza delle sue lacrime, un'assenza dolorosa: l'ho guardato con disprezzo.

Il padre ha iniziato a urlare che loro avevano fatto il possibile, che erano poveri, che credevano che la bambina stesse bene.

Dopo molti minuti la madre si è come risvegliata dal suo torpore e ha iniziato a piangere sommessamente, senza voce, rimanendo seduta sul divano con le mani sulle ginocchia e con gli occhiali tenuti insieme dal nastro adesivo.

 

"Dottore, di cosa pensa sia morta la bambina?", mi chiede il maresciallo dei Carabinieri.

Sono stanco e gli spiego con fatica che la bambina è morta da un po' e che la presenza delle macchie dietro alla schiena lo indica chiaramente.

 

Gli spiego che era molto disidratata, che le guance, la fontanella e gli occhi sono infossati e che la pelle è secca.

"Questa bambina" gli dico "è morta di fame, di stenti."

Al maresciallo luccicano gli occhi e io ho bisogno d'aria.

In pochi minuti la casa si riempie di forze dell'ordine e i due Carabinieri seguono silenziosi come fossero ombre ogni movimento del padre che continua a non piangere.

Io inizio a compilare la scheda dell'intervento, mi metto vicino a uno scaffale sui cui ripiani ci sono vestiti, biberon e un ciuccio.

In quella casa non ci sono giochi e a parte quelle poche cose sul ripiano e un lettino a sbarre, non c'è nulla che indichi la presenza di una bambina.

Mi appoggio allo scaffale per poter scrivere e con la coda dell'occhio vedo qualcosa che si muove, guardo meglio e vedo tanti piccoli scarafaggi che corrono sui vestiti e sul ciuccio.

Arretro, mi gira la testa e mi volto verso il maresciallo che ha visto esattamente la stessa cosa, cerco il suo sguardo, lui mi guarda scuotendo la testa, anche per lui è troppo.

 

Esco sul pianerottolo e mi siedo sui gradini delle scale ascoltando il rumore della pioggia incessante.

So che l'attesa sarà lunga perché dovremo aspettare la compilazione dei verbali, i rilevamenti della polizia scientifica e l'arrivo del magistrato di turno, perché la morte della bambina non è stata naturale e i genitori sono in stato di fermo con l'accusa di omicidio.

È notte fonda, rientro per un attimo in casa, mi riavvicino ad Anna, le accarezzo la testa e le porgo il mio ultimo saluto augurandole buon viaggio: ha vissuto solo nove mesi, lasciata morire da chi invece avrebbe dovuto proteggerla e crescerla.

Proprio questo rende ancor più dolorosa, se possibile, la morte di una bambina: il fatto che sia morta nell'indifferenza di tutti, sola, debole e invisibile, a pochi passi dai ristoranti di lusso e dalle strade della moda.

Non riuscirò mai a togliermi dalla mente l'immagine del suo corpo nudo, disteso su quel tavolo e la sensazione del dolore profondo che ho provato, la sensazione di impotenza e di sconfitta.

Il via libera per noi arriva alle 4.00, quando lasciamo il palazzo dopo sei ore e rientriamo in ospedale sotto una pioggia battente, dopo uno dei servizi più difficili che io ricordi, stanchi, bagnati e profondamente tristi.

 

Ho immaginato a lungo, per molte notti, Anna che piangeva perché aveva fame, che piangeva perché voleva essere cambiata o solo sollevata un po', cose semplici e scontate, ma che in quella casa venivano fatte raramente.

Ho immaginato a lungo Anna che piangeva solo perché richiedeva un po' d'amore.

 

Quando esco dall'aula del tribunale mi sento più leggero, sento di aver fatto il mio dovere, così come quella notte.

Il processo si è concluso con la richiesta da parte del pubblico ministero di 20 anni di reclusione per entrambi i genitori: sono stati condannati a 12.

Ancora oggi ripenso spesso a quella notte e so che questo pensiero, quelle immagini e quegli incubi non mi abbandoneranno tanto facilmente, dovrò solo imparare a conviverci e ad accettarli.

 

Anna è stata tumulata nel campo dei bambini al cimitero Maggiore di Milano, non c'erano fiori sulla sua piccola tomba.

Sono andato a trovarla, le ho lasciato una rosa e un ciuccio legato al gambo con un nastrino.
Non la dimenticherò mai.









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