DIALOGHI NOTTURNI CON NICCOLÒ FABI
la stanza degli ospiti
3 aprile 2023
Dialoghi notturni con Niccolò Fabi | Stefano Manera Blog

In una lunga chiacchierata in diretta Facebook con Niccolò Fabi abbiamo parlato del potere terapeutico delle parole e della musica, di empatia e compassione, di obiettivi, di medicina integrata e di vibrazioni che curano.
Abbiamo condiviso con tutti voi la nostra visione e il nostro sentire, lo stesso che ci ha fatto incontrare e iniziare un tratto di strada insieme.

Questo post è tratto da quella conversazione.

 

S.M.
Le persone mi contattano spesso dicendo che negli ultimi anni hanno trovato conforto in me. E lo stesso è per te: le persone trovano conforto nelle tue poesie, nelle tue canzoni e nei tuoi testi, sono una grande fonte di cura per il loro sentire, dei tramiti per sentirsi meglio.
Questo incontro vuole essere un atto di gratitudine per queste persone che ci seguono e ripongono in noi la loro fiducia.

 

N.F.
Abbiamo due ruoli, due compiti diversi, ma che ho sempre pensato possano essere complementari. Con le mie canzoni, nella scrittura, mi occupo di emotività, ma subisco anche molto il fascino dell'aspetto scientifico, che non toglie comunque il romanticismo. Mi affascina il fatto che dietro alla rabbia e al dolore ci siano dei processi chimici, che non sia magia o sentimentalismo, ma che sia il nostro corpo a reagire in maniera fisica, manifestando quelle che diventano le nostre emozioni.
Quindi, pur partendo da un aspetto etereo, rimango affascinato dall'interrelazione che esiste a livello emotivo tra il corpo e la nostra parte spirituale.
Tu parti da una preparazione scientifica e probabilmente hai fatto il percorso opposto. Arriviamo poi allo stesso punto partendo dai due estremi opposti, tu affascinato dalle persone che si occupano di emozioni da un punto di vista artistico e io affascinato dalle persone che se ne occupano da un punto di vista scientifico.

 

S.M.
Si, è così, dedicarmi ad una disciplina altamente scientifica e specialistica come la rianimazione mi ha permesso di relazionarmi quotidianamente con la morte, da lì sono nate parecchie riflessioni, da come interagiamo con le nostre emozioni, a ciò che porta ai grandi scompensi della nostra vita. Quanto tutto questo è legato all'aspetto chimico e quanto all'aspetto energetico, animico?

 

N.F.
Tempo fa una dichiarazione di Carlo Rubbia mi aveva colpito; diceva che osservando l'infinitamente piccolo al microscopio si sia portati ad ammettere l'infinitamente grande, come se si andasse in profondità, ma per giustificare tutto quell'incredibile ordine che si sta trovando si debba spalancare una porta che porta altrove, e lì non basta più la scienza, si entra in un'altra dimensione e questo è quello che ho sempre sentito.
La radice della parola rianimazione è la parola anima, tu agisci in un territorio di confine, tra quello che è comprensibile e quello che non lo è.

 

S.M.
Mi fai venire in mente la sequenza di Fibonacci, la sezione aurea, che si trova in tutta la natura, fin nelle galassie. La sequenza di Fibonacci è l'espressione matematica della perfezione. Possiamo trovare la perfezione anche all'interno di quelle che sono le esperienze più traumatiche, sono arrivato a questa conclusione e questo mi ha stupito, all'inizio lo rifiutavo, invece oggi penso proprio che sia così.

 

N.F.
Come si fa a gestire quel tentativo di sentirsi in grado di avere tra le mani la vita di un'altra persona, a gestire la grande responsabilità e la paura, ma immagino anche la sensazione quasi eccitata di onnipotenza, a riuscire a essere un ago della bilancia tra la vita e la morte di una persona, come medico in generale, ma come rianimatore più di tutti? Come si gestisce questa responsabilità così grande, come si trova l'equilibrio?

 

S.M.
Bisogna imparare a conoscere chi sei tu, in base alla risposta devi poi gestire l'emozione e comprendere che il delirio di onnipotenza è un'esperienza comune, ti appartiene, solo che poi ti devi disidentificare, perché altrimenti vieni ingannato; è il canto delle sirene di quel poter gestire la vita e la morte, è l'attrazione ad avere una forma di attaccamento verso il risultato, e questa è la cosa peggiore che si possa fare perché ti fa perdere il bene reale del paziente, ma anche il tuo. Ci vuole un equilibrio psicofisico notevole.
Il risultato in medicina è fondamentale, devi poter fare tutto quello che è nelle tue possibilità, però devi anche accettare che non sempre le cose vanno come vorresti e che c'è una compagna di viaggio sempre molto presente: la morte. La morte nel nostro lavoro spesso è una compagna inevitabile.

 

N.F.
C'è il concetto di empatia col quale conviviamo noi artisti perennemente, perchè raccontiamo le nostre emozioni e quelle che vediamo essere vissute dalle persone che ci stanno accanto, però nel nostro caso l'empatia ha quasi sempre un risvolto positivo, la nostra scrittura si arricchirà delle emozioni dell'altro, senza particolari controindicazioni. Nel caso invece del tuo lavoro l'empatia fino a che punto è fondamentale per entrare nella sensibilità del paziente e come fai a capire quando e dove fermarti dentro questo processo empatico per non esserne travolto, come fai ad arrivare a quel punto e non oltrepassarlo?

 

S.M.
Sul concetto di empatia ci ho riflettuto molto e ho anche scritto, è quello che sto portando in giro nelle mie conferenze parlando della compassione. Spesso confondiamo i due termini. L'empatia è uno strumento fondamentale per tutti coloro che si occupano di cura (tutti noi nella vita prima o poi ci occuperemo di cura) e ci consente di sentire quello che l'altra persona prova, ma nasconde in sé un'insidia che è quella dell'eccesso empatico che inevitabilmente ti conduce nelle sabbie mobili, è una trappola. Quando vivi l'esperienza dell'eccesso empatico hai talmente tanto rispecchiamento nei confronti dell'altro che non riesci più a uscirne e questo è un problema.

L'empatia deve essere il trampolino per arrivare alla compassione, ovvero quella qualità che ti permette di non entrare in quella sabbie mobili. È una qualità che dev'essere allenata ed è cosa diversa dall'empatia. La compassione è un'evoluzione - l'upgrade, dico io - che include naturalmente anche l'empatia, ma va ben oltre.
Se si rimane intrappolati nell'eccesso empatico si rischia di essere inefficaci nell'atto terapeutico, entrando in un gorgo pericoloso. Serve un distanziamento emotivo, che non è distacco, ma è la capacità di guardare l'altro dalla giusta prospettiva per comprendere la sofferenza e poter essere d'aiuto.

 

N.F.
Ognuno di noi ha sperimentato come paziente nella vita la quantità di sfumature che sono dietro l'approccio medico: il medico chiaro ed esaustivo, però poco partecipe, quello che ti consegna una diagnosi ed è come se la guarigione non lo riguardasse, quello che attua un distanziamento positivo, cioè quel medico che ha la capacità di dare degli elementi razionali non sentimentali in modo che la persona possa fare chiarezza in sé e quel medico che introduce anche la partecipazione emotiva e fa sì che la diagnosi abbia la temperatura della condivisione.
All'interno del processo di guarigione sappiamo come si attivano le nostre capacità di autoguarigione grazie al modo in cui ci sentiamo, grazie alla possibilità di avanzare con fiducia. I grandi medici hanno la capacità di infonderti la forza di farti affrontare un percorso, ti coinvolgono in una partecipazione emotiva che ti fa sentire abbracciato, senza comunicare fragilità e incertezza. Per questo credo che la professione che fai sia la più incredibile che la persona umana possa compiere.
Le parole creano. Le parole curano. Agiscono sugli stessi meccanismi biochimici su cui agiscono i farmaci.

 

S.M.
Certo, le parole curano o possono anche essere armi, ferire brutalmente. Tu sei un maestro in questo, sapendo usare le parole con grande maestria. Qui potremmo citare Ildegarda di Bingen che fu una delle prime a usare la musica come terapia. Tu per me sei un po' ildegardiano e fai esattamente questo: curi usando parole e musica.

 

N.F.
Per me è facile, ho la capacità di immedesimarsi in uno stato d'animo, raccontarlo ed esserne preda, senza l'esigenza di essere razionalmente autorevole per proporre una cura. Io mi fermo al primo passaggio. la persona percepisce che la propria sofferenza o il proprio disagio è qualcosa di fortemente umano e condiviso.
La rappresentazione fatta da un artista è estremamente consolatoria, permette alle persone di vivere il loro stato d'animo come qualcosa di comprensibile, uscendo dalla solitudine. Il dolore in solitudine sappiamo che può essere quello più sordo, quello che non ha uno sbocco, che non ha una luce. Trovarsi con persone che condividono le stesse sensazioni e lo stesso dolore crea alleanza, lo inserisce in un processo di accettazione, che è il primo passo per la guarigione.
Io posso permettermi di essere la rappresentazione di quel dolore perchè non ho l'esigenza di esserne distaccato, devo essere intriso di quell'emozione per aiutare a riconoscere quel dolore che canto. Spesso quando parliamo di dolore pensiamo a qualcosa di evidente, ma non è così: non tutti hanno la capacità di capire il proprio dolore, sapere dove sia, quale ne sia la causa e quale possa essere la via di uscita potenziale. Per me c'è quindi una responsabilità minore. Pur non disconoscendo gli effetti dell'arte, del potere terapeutico della musica, sono molto felice di non dover aggiungere anche un aspetto scientifico.

 

S.M.
I nostri ambiti sono diversi, ma complementari, come hai detto tu prima. In realtà io non faccio più il rianimatore da anni e ora sto compiendo un passaggio verso una ricerca delle componenti che costituiscono l'essere umano, cerco di vedere e far vedere l'emotività delle persone che ho di fronte. Molte persone rimangono ancorate al sintomo, ma il sintomo è un paravento dietro cui nascondersi, il sintomo in un certo senso diventa funzionale. Togliere l'identità col sintomo porta a un'apertura incredibile. Molte canzoni portano con sé una possibilità catartica e diventano strumenti di cura potentissimi, innescano un processo, aprono dei rubinetti, liberano, sciolgono nodi.

 

N.F.
La canzone rispetto alla parola ha un'arma in più; la musica che crea un'ambientazione emotiva alle parole molto speciale. La canzone è come fosse un unguento, un balsamo che fa entrare quelle parole ancora più in profondità in chi ascolta, attiva reazioni emotive, dà un colore in più, un odore, un sapore in più, ha quelle stesse caratteristiche, quegli stessi meccanismi di quando sentiamo alcuni odori che, in modo irrazionale, ci riconducono a uno stato d'animo, a un momento della nostra vita.
La memoria del corpo mi affascina molto. Sapere come ogni esperienza che ho vissuto è rimasta all'interno del mio corpo è incredibile. Ho la netta percezione che tutto il mio vissuto sia memorizzato dentro il mio corpo e la musica è una frequenza che va a scandagliare e a far risuonare quel vissuto per poi farci esplodere, a volte, come fa un vetro che viene colpito da una specifica frequenza.

 

S.M.
L'olfatto è sempre legato a memorie antiche. Sappiamo che l'olfatto è direttamente collegato al cervello, senza intermediari. Riguardo alla musica, quando siamo nella pancia della mamma, le prime cose che sentiamo sono le vibrazioni, il battito cardiaco, la voce di nostra madre. L'energia vibratoria che fa entrare in risonanza è portata dai suoni, è vibrazione curativa perché tutte le cellule vanno a posto. La cosa meravigliosa da notare è che ogni sette anni ognuno di noi cambia le cellule del proprio corpo (tranne i neuroni), nonostante questo, restiamo le stesse persone, con la stessa identità e la stessa memoria, questo per me è davvero stupefacente. Possiamo dire che esiste un passaparola tra cellula e cellula, le cellule si passano il patrimonio imparato. In realtà come possa avvenire è ancora oggi un grande mistero, ma sappiamo che l'epigenetica gioca un ruolo fondamentale. Pare anche che questo passaggio di consegne non avvenga attraverso la biochimica, ma attraverso le frequenze elettromagnetiche, come se nel nostro corpo ci fossero trilioni di minuscole radioline in grado di sintonizzarsi. La musica potrebbe essere quindi una sorta di vettore messaggero che aiuta il trasporto delle informazioni tra le cellule, un'informazione emotiva che le aiuta a continuare ad esistere.
Ildegarda di Bingen aveva capito - e così tanti altri dopo di lei - che la musica ha questo effetto terapeutico intrinseco e quindi che l'unione tra un terapeuta e un musicista sia molto potente perché arriva ad attivare alcuni maccanismi che una molecola non può fare. Ci sono tanti studi ed esperienze in merito, anche coi pazienti in fase terminale.

 

N.F.
Ti confesso che sono in crisi per non essere mai riuscito a trovare un equilibrio tra l'approccio scientifico, quello della scienza contemporanea e della conoscenza sempre più minuta, con l'approccio più olistico, quello che trae insegnamento da ciò che c'è dentro e intorno a noi, ovvero gli aspetti emotivi, culturali e sociali. Mi trovo spesso tra questi due opposti.
Da una parte la medicina contemporanea iperspecializzata, che manca spesso dell'attenzione al paziente come essere umano, interessata più ai numeri, agli esami. Dall'altra parte il mondo delle medicine "alternative" che esplorano in maniera più olistica e completa il fenomeno uomo, ma che spesso sono al confine con la new-age fricchettona. Sono assolutamente affascinato quindi dal concetto di medicina integrata. Come riesci tu a gestire questo?
Mi rendo conto che i processi di guarigione sono più articolati del riconoscimento e dell'abbattimento di quel dato che non va, di quell'esame fuori posto. Quel dato è all'interno di un macrosistema molto più articolato che è l'unicità meravigliosa dell'essere umano che difficilmente può essere una statistica.
Sentirsi un dato statistico è un aspetto che inibisce l'autoguarigione, perché ti fa sentire dentro qualcosa su cui tu non hai alcun potere, ti fa sentire vittima di un processo di cui non hai una responsabilità personale. Perennemente mi ritrovo ad essere un pendolo tra la fascinazione delle medicine alternative e la fascinazione che, anche su di me, hanno alcuni specialisti che mi spiegano in maniera molto scientifica quello che mi sta succedendo.

 

S.M.
Ci vuole un discreto equilibrio, padronanza di noi stessi e centratura. Io nasco come medico totalmente agganciato alla medicina ufficiale e mi ricordo bene le mie critiche aspre alla medicina cosiddetta alternativa di quando ero molto giovane, presuntuoso e anche inconsapevole. Quando ho iniziato a praticare la medicina, ho iniziato a vedere che tante volte i pazienti non guarivano, che riducevamo i sintomi, ma il paziente non guariva e diventava un malato cronico. È stato allora che sono entrato in crisi, perché non riuscivo a dare a me stesso una risposta convincente.

Mi sono chiesto: "ma cosa sto facendo realmente?"

A un certo punto mi è stato chiaro che i nostri sensi sono molto limitati a una fetta molto piccola della realtà, oltre alla realtà del visibile c'è tutto il resto che non vedi, che non senti, che non tocchi. Sì, c'è molto altro. Se ci limitiamo a curare esami e numeri, non andiamo nella direzione giusta. A volte i numeri di un paziente sono perfetti, ma nonostante questo lui continua a non stare bene. C'è qualcosa che devi andare a vedere su altri piani, in altre strutture. I grandi risultati della medicina ufficiale sono fondamentali, non sono da rinnegare nella maniera più assoluta, ma c'è di più.

L'errore è quello di cadere nel riduzionismo: l'uomo non è solo costituito dal suo corpo fisico, ma da altri corpi; siamo come delle matrioske: composte dal livello emotivo, energetico, spirituale, animico e ognuno di questi livelli può ammalarsi, ne dobbiamo essere consapevoli. Dobbiamo comprendere qual è l'urgenza in quel momento della vita della persona che abbiamo davanti. Per far questo - e farlo bene - non si finisce mai di studiare perché è fondamentale l'integrazione tra le varie conoscenze.

 

N.F.
Conoscere è un processo di apertura, non di chiusura, un approfondimento non confinato a un serbatoio unico. Mi rendo conto che esistono metodi diversi da quelli occidentali di conoscere il corpo, penso alle tradizioni millenarie, dagli stregoni, agli sciamanti, alla medicina cinese e ognuna di queste tradizioni può aggiungere un tassello fondamentale. Queste tradizioni che hanno sviluppato una conoscenza attenta possono consegnare a ciascuno di noi, a seconda di come risuona su alcune frequenze, informazioni importanti, con svariate sfumature. Credo tanto negli individui che essendo esseri unici per ragioni fisiche, genetiche, spirituali e culturali, reagiscono in modo più forte o meno forte a un certo tipo di cura. Scoprire qual è la nostra è per me estremamente affascinante.
Per questo è importante non cadere in sciocche polarizzazioni di pensiero - soprattutto in questo periodo storico - così amplificate anche a causa dei mezzi di comunicazione di massa. Penso ai social dove la sintesi è fondamentale a scapito dell'elaborazione e dello svolgimento del pensiero, dove la polarizzazione la fa da padrona. Viviamo in un periodo storico particolarmente complesso in cui, per essere equilibrati, dobbiamo cercare di inserire elementi di giustizia e non estremismi faziosi che ci mettano l'uno contro l'altro, perché se c'è un aspetto che abbiamo capito tutti è che la divisione non funziona, la divisione è malattia.

 

S.M.
Tocchiamo un tema importante e delicato, quello dell'autodeterminazione dell'individuo, del suo diritto a decidere per se stesso qual sia la cura migliore, quella con cui si sente maggiormente in sintonia. Noi tutti siamo come dei diapason e ognuno vibra a una certa frequenza, diversa per ognuno. Questo vale anche per le cure che evidentemente non possono essere le stesse per tutti. Lo sciamanesimo, le medicine tradizionali, la medicina tradizionale cinese, l'ayurveda, sono tradizioni antiche di migliaia di anni e rappresentano un'evoluzione culturale importantissima ancora tramandata. Io ritengo che sia necessario attuare l'integrazione, l'unione e l'equilibrio.

 

N.F.
I viaggi africani sono un bel terreno di prova, c'è una inevitabile necessità di entrare nell'attenta osservazione del paziente, poiché generalmente mancano apparecchiature, lo devi guardare negli occhi, guardare i dettagli del suo corpo, oltretutto quando li interroghi non hanno la capacità di raccontare, a causa di problemi linguistici e culturali.
Serve lo sguardo tattile, non il medico che guarda le analisi, ma che ti "sente". In Africa il modo di essere medico è un'esperienza fondamentale. In più c'è l'integrazione delle culture tradizionali mediche con le innovazioni che noi possiamo portare, quindi è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra le credenze locali (non banalizzandole) con la nostra medicina occidentale insegnando ai pazienti che può essere assolutamente utile.
Trovare il giusto equilibrio. L'africa è una grande prova ed è come una lente di ingrandimento.

 

S.M.
La parte bella della mia esperienza in Africa è stata la riconoscenza che vedevo nei loro occhi. Ho adorato vedere anche l'unione meravigliosa tra i saperi tradizionali e la necessità dell'utilizzo della medicina occidentale, della chirurgia, della radiologica, ecc... Lì si torna alle origini, vivendo un rapporto tra medico e paziente più diretto e che ormai da noi è scomparso.

 

N.F.
Un altro discorso che mi sta a cuore è quello di cercare di non avere obiettivi nella vita. Alimentare di passione la vita è meritevole, però c'è un grande rischio nel focalizzare l'attenzione sull'obiettivo, che è perdersi tutto ciò che capita tra noi e il raggiungimento dell'obiettivo stesso.
L'obiettivo è spesso una piccola ossessione e non ci rendiamo conto che ci perdiamo la possibilità di osservare tutto quello che c'è intorno.

Tra il punto di partenza e il punto di arrivo, in mezzo c'è tutto il resto. Anche all'interno del processo di guarigione, dovremmo riuscire a considerare la guarigione senza l'ossessione del punto di arrivo, senza considerare il processo. Il processo ha senso comunque, perché è proprio grazie alla malattia che quando siamo malati capiamo meglio chi siamo e ci ascoltiamo; la malattia è un'incredibile occasione di autoconoscenza.
In "Costruire" si parte dal fatto che i momenti più spettacolari di qualsiasi percorso siano la partenza e l'arrivo e che al traguardo arrivano magari in pochi. Quello che fa la differenza è dare luce ai momenti intermedi, a tutto ciò che avviene giorno dopo giorno in maniera silenziosa, ma che rappresenta tutto quello che conta durante il percorso, costruendolo.

 

S.M.
Cercare di non avere obiettivi nella vita ha a che fare con la presenza e con l'impermanenza. Un continuo cambiamento e un'accettazione di questo cambiamento, che è presente sempre e in ogni cosa. Sono quei nodi spesso alla base di alcune malattie, io la chiamo una interruzione del flusso, qualcosa che ostruisce non solo fisicamente le arteria, ma le vie della vitalità, dell'energia.

Questo blocco rappresenta l'inizio di una somma di cose, di effetti a catena e da lì spesso si rileva il principio di una malattia.
La salute è quando le cose scorrono, l'equilibrio. Quando le cose si fermano è la fine, la mancanza di elasticità, la vecchiaia, la morte. Rigidità, divisione, conflitto portano alla patologia.


N.F.
Gli esseri umani possono essere amplificatori di conoscenza unendosi tra loro. Una delle missioni, una delle attività più belle che un essere umano possa fare, è nutrire la vita di un altro grazie alle sue conoscenze. Le cose poi arrivano al momento giusto, sembra che tutto abbia un naturale fluire, può diventare qualcosa di sorprendente e bello, quando due persone vibrano con la stessa frequenza si attraggono.
Interessante quando risuono con le persone che hanno i miei stessi dubbi, non necessariamente le certezze. Quello che per fortuna mi capita a volte di sentire è di essere all'interno di una ricerca personale che mi orienta all'interno di un dubbio: i motivi per cui esistiamo, i perchè, i dove e i quando, i grandi temi che spesso nella nostra quotidianità sfuggiamo. Le grandi paure, i grandi interrogativi.

 

S.M.
Porci dubbi ed essere critici è importantei. Il pensiero critico (inteso come indagatore e privo di certezze assolute) è in grado di unire, di creare fratellanza. Condividere l'incertezza, le paure come quella della morte è un esercizio di grande umiltà. Arrogarsi di sapere, di conoscere non funziona, è indispensabile ridimensionare l'ego, accettando la nostra imperfezione, i nostri limiti, accettando che la nostra vita è un flusso, come in un fiume.

 

N.F.
In "Vince chi molla", canzone che parla di questo, c'è l'immagine della corrente che come potenziale cinetico, se non viene addomesticata, può rivolgersi contro, rischia di toglierci energie fino a farci morire. Serve avere l'umiltà di lasciarsi andare alla corrente, lasciarsi accompagnare dal flusso delle cose, mollare. È un concetto in antitesi a quello che si sente spesso con "non mollare mai"; dobbiamo accettare il fatto che siamo esseri finiti, che non tutto è nelle nostre mani, la sensazione di vittoria, non come premio, ma la possibilità di un finale che preveda anche l'accettazione del fatto di non avercela fatta. Altrettanto umano.

 

S.M.
Sì Niccolò, è esattamente quello che dicevamo all'inizio, quando parlavamo del pericolo dell'attaccamento agli obiettivi, della necessità di non essere troppo attaccati al risultato. L'insidia della frustrazione è dietro l'angolo. Restare umani significa accettare i nostri limiti e accarezzare la nostra umanità.

 

N.F.
La soddisfazione più grande nel mio lavoro è proprio essere parte, grazie a delle canzoni, della guarigione delle persone malate, sento che il mio animo è impregnato di questa fragilità che poi diventa, tramite la musica, energia vitale.

 

S.M.

Nicc, non posso che essere grato per il tuo impegno, per la tua umanità, per la tua attenzione e per la tua amicizia. Grazie anche per aver accettato di prendere parte a questi "Dialoghi notturni".

Spero di rincontrarti presto.

 

N.F.

Ti abbraccio, grazie a te e grazie a tutti!

 

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Potete rivedere la diretta Facebook del 10 marzo con Niccolò Fabi qui:
https://fb.watch/jgf9pE1Vab/

 









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