LA PRATICA DELLA METTĀ, GENTILEZZA AMOREVOLE
mente (cervello)
23 febbraio 2023
La pratica della metta, gentilezza amorevole | Stefano Manera Blog

La pratica di mettā è un esercizio di meditazione che generalmente viene insegnato come un tipo di meditazione di tranquillità.

I meditanti coltivano pensieri di benevolenza nei propri confronti e poi condividono questa benevolenza con altri, includendo infine, in modo equanime, tutti gli esseri dell’universo.

È anche molto utile come esercizio di meditazione di visione profonda.

E questo, in parte, perché il solito modo di relazionarci all’esperienza – soprattutto a quella spiacevole – è opporvi resistenza.

Se potessimo in qualche modo cambiare il nostro atteggiamento ed essere un po’ più tranquilli, o anche amichevoli, verso le cosiddette esperienze negative, ciò ci darebbe la possibilità di avvicinarci ad esse, vederle chiaramente, e averne perciò una visione profonda e più chiara della loro vera natura.

 

La mettā (benevolenza o amorevole gentilezza), è uno dei quattro brahmavihāra buddisti, i quattro sublimi stati. Gli altri tre sono upekkhā: (equanimità), karuṇā (compassione), muditā (gioia empatica).
Praticare i brahmavihāra e in particolare la mettā serve a porsi in maniera più centrata, con una maggiore propensione a fare e ricevere del bene, a coltivare pensieri di benevolenza. Benevolenza prima di tutto nei propri confronti, per poi espanderla verso gli altri e poi verso tutti gli esseri viventi.

 

La pratica della mettā ha le sue radici nella leggenda. Si narra che durante la stagione delle piogge alcuni monaci buddhisti si allontanarono per meditare nel bosco. Pare che questa parte del bosco fosse abitata da Demoni che facevano lì i loro baccanali. I monaci, disturbati dai demoni che li spaventavano, resistettero per un po', ma poi vennero sopraffatti, così tornarono dal Buddha e gli chiesero cosa fare per non cadere nella paura.

Il Buddha fece una cosa che faceva sempre cioè non fece nulla. Non fece nulla per mandare via i Demoni.

Siamo sempre pieni di cose da fare, ma esiste il potere terapeutico della non-azione. I monaci restarono spiazziati. Spesso ci aspettiamo che siano gli altri a dirci cosa fare.

Buddha allora insegnò questa pratica, cioè la pratica della mettā, la benevolenza necessaria per disperdere la paura.

Disse: "Dovete praticare. Irraggiando benevolenza, senza timore, in tutte le direzioni e verso tutti gli esseri. Questo vi aiuterà a sciogliere le vostre paure."

Le scritture dicono che i monaci non fossero troppo convinti ma pare che tornarono nella radura per praticare, irraggiando benevolenza, e poi, addirittura, si misero a servizio dei demoni.

 

Quindi la pratica di benevolenza, la mettā, l’accettazione incondizionata e imparziale è vista come il modo per trascendere la paura. 

Si può osservare una risonanza in altre religioni, specie nell’ambito cristiano con la Prima Lettera di Giovanni laddove si dice che “l’amore scaccia la paura”. Si dice anche che “finché temiamo non siamo perfetti nell’amore”. 

La pratica di mettā per alleviare prima, e trascendere dopo, la contrazione fondamentale della paura. Può essere interessante osservare che storicamente in molti monasteri buddhisti è ancora d’uso iniziare i monaci e le monache con la meditazione di mettā (benevolenza) e passare solo in un secondo momento alla meditazione vipassanā (consapevolezza). Nel mondo occidentale succede il contrario.

L’importante è che ci siano entrambe in quanto si sostengono l’una con l’altra. Perchè si sostengono?

La mettā è un ammorbidente; su una interiorità ammorbidita o, meglio, in un cuore guarito o curato, la consapevolezza, che è la capacità di vedere, si instaura con più facilità. Per contro la capacità di vedere, che poi sfocia nella saggezza, facilita una apertura e accettazione di benevolenza. È difficile, se non abbiamo benevolenza anzitutto verso noi stessi, far sorgere l’intenzione duratura di praticare metta verso gli altri.

È molto difficile che se non abbiamo benevolenza verso noi stessi sorga benevolenza nei confronti di quello che ci sta intorno. Il Buddha disse "chi ama se stesso non nuoce agli altri", e Gesù disse "ama il prossimo tuo come te stesso".
La base imprescindibile è l'amore maturo verso noi stessi, alimentato da quella saggezza che sceglie cosa è di giovamento e scarta ciò che è deleterio.
Amare noi stessi non è egoismo e non è narcisismo. Il narcisismo si basa sull'odio per se stessi. Il narciso cerca di farsi amare perché non è in grado di amarsi, si innamora della sua immagine riflessa.

 

Il consiglio è ripetere spesso durante la giornata le frasi tradizionali della pratica della gentilezza amorevole, ad esempio "che tu possa essere felice".
Prima di tutto riportare questa frase a una persona molto cara, un soggetto verso cui ci venga facile avere il cuore aperto, senza nessuna resistenza, e insistere su questo soggetto senza imposizioni, ripetendo più e più volte durante la giornata questo augurio di benevolenza.
Potremmo poi rivolgere queste stesse frasi a un estraneo, notare per esempio qualcuno in un luogo pubblico, e indirizzare a questa persona "che tu possa essere felice", senza sforzo, mantenendo l'eventuale spinta giudicante che ci viene spontanea ma arricchendola con questa frase. Accanto alla mente meccanica attiviamo così quella parte consapevole di gentilezza amorevole.

Ricordiamoci di praticare. Passeranno momenti lunghi in cui non praticheremo, magari ci rifiuteremo, ci sentiremo inadeguati, avremo resistenza, ma portando attenzione, praticando e praticando, potremo arrivare a farlo in maniera fluida.

La mattina appena alzati, potremo dirci questa frase guardandoci allo specchio: "che tu possa essere felice". La reazione com'è? Cosa sentiamo? A cosa ci stiamo opponendo quando non lo facciamo? Non veniamo educati alla gentilezza amorevole, ci riesce difficile praticarla. Va contro le nostre abitudini. Prendiamo in mano questa possibilità, senza alcun giudizio.

 

Questa frase, "che tu possa essere felice", è di una potenza dirompente, apre il cuore come una bomba, ci chiede di essere guardati, ci chiede come siamo fatti dentro veramente, ognuno con le nostre motivazoni, i desideri, i problemi, c'è qualcosa che grida dentro tutti noi e chiede di essere ascoltata.
Il grosso ostacolo è la nostra abitudine a vedere sempre i nostri difetti, i lati oscuri, e anche quelli degli altri.

La disistima, nei confronti di se stessi, è usuale. Il pensiero è perennemente orientato verso quello che non sappiamo fare, quello che non abbiamo avuto, i litigi, i problemi e mai verso quello che abbiamo.
Tutti abbiamo molto: persone che ci vogliono bene, cibo, casa, qualità, tutti abbiamo qualità, ma l'attenzione è concentrata solo su quello che non abbiamo. L'attenzione focalizzata sul rimuginio costante non ci fa vedere tutto quello che stiamo vivendo nel momento della presenza.

 

Serve un grosso cambio di mentalità, serve osservare questo continuo rimestio mentale, questa modalità perversa, questa è la partenza per praticare la metta, per portare la nostra attenzione a un livello più alto.
Quali sono gli indizi che ci devono far concludere che non ci amiamo?

  • Viviamo in uno stato perenne di autocritica, di abituale insoddisfazione di noi stessi.
  • Proviamo ipersensibilità nei confronti degli altri, ci sentiamo sempre attaccati, proviamo un forte risentimento, ci sentiamo feriti.
  • Siamo in uno stato di indecisione cronica non per mancanza di informazioni ma per la paura costante di sbagliare, di non ottenere l'approvazione degli altri.
  • Abbiamo il desiderio eccessivo di compiacere gli altri, ci manifestiamo per ciò che non siamo cercando il perfezionismo, che non è di questo mondo.
  • Proviamo costantemente senso di colpa forte per comportamenti anche non oggettivamente sbagliati.
  • Valutiamo in maniera esagerata i nostri errori.
  • Ci lamentiamo sempre senza mai perdonarci, in una costante non accettazione.
  • Proviamo costantemente irritabilità che esplode anche per cose di poco conto, facendoci trascinare dalla rabbia.
  • Abbiamo un atteggiamento ipercritico, tutto ci appare sempre deludente.

 

Almeno uno o alcuni o anche tutti questi punti possono essere molto radicati in noi e allora non riusciamo a vivere con gioia la nostra vita, sono indici come se ci misurassimo la temperatura. Indici di urgente esigenza di sviluppare amore verso noi stessi.
La meditazione serve a colmare il vuoto evidenziato in tutte queste forme di sofferenza.


Quando iniziamo davvero ad accettarci per quello che siamo, facendo cadere le maschere, superando i conflitti, questa è una svolta assoluta, un'epifania, e la mostra esistenza è pronta a cambiare. Sarà graduale. Non è facile. Ma è urgente, il nostro sé ci sta chiedendo un grande cambiamento: è tempo di sviluppare amore per noi stessi, accettarci con i nostri limiti, difetti, mancanze, senza condizioni, abbandonando la lotta, facendo cadere le resistenze.

 

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Vi invito a praticare con me l'amorevole gentilezza rivedendo la diretta disponibile QUI dedicata alla metta e a seguire gli altri incontri gratuiti del gruppo di meditazione IL TIMONE.

 









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