STORIA DI ALFREDO
divagazioni notturne
12 aprile 2021
Storia di Alfredo | Stefano Manera Blog

Oggi la pioggia e il freddo di questa primavera arrabbiata e taciturna mi fanno venire in mente una storia che vorrei raccontarvi. È una storia di altri tempi, che profuma di legna bruciata, di tabacco e di vino.
È il valzer degli addii, come scriveva Kundera.
Questa è la storia di Alfredo.


Lui la raccontava con lentezza, con la sua voce roca, che schiariva di tanto in tanto, intervallando l’italiano con frasi in dialetto piemontese; rideva Alfredo con quella risata che sembrava uscire direttamente dal petto, una risata di chi aveva fumato tanto, per tutta la vita.
Alfredo aveva fatto il contadino e la sua pelle era come il cuoio, brunita, con profondi solchi sulla fronte e capelli bianchi e corti.
Alfredo mi guardava con occhi sottili, circondati da lunghe rughe, occhi sorridenti, profondi e azzurri come il mare, occhi che ti scrutavano e che avevano pianto, tanto, “ecco perché quelle rughe sono così profonde”, mi diceva la nonna.


Lo conoscevo da sempre, ma io non l’avevo mai visto piangere, lui era il grande vecchio delle mie colline, lui che si svegliava alle prime luci dell’alba, che ogni domenica lo incontravi a messa e poi al bar a giocare a carte e a bestemmiare, lui che da bambino mi aveva fatto guidare il vecchio trattore Fiat arancione, un pomeriggio di molte estati fa, in un’aia bruciata dal sole e inondata dal frinire delle cicale e dai muggiti delle mucche nella stalla, anche loro esasperate dal caldo.
Ricordo bene i racconti di Alfredo, quante volte l’ho sentito cianciare col nonno su come sarebbe stata la vendemmia o sul raccolto delle nocciole, scambiandosi suggerimenti, sempre preoccupati, come se quelle piante fossero loro figlie e quella terra la loro unica ragione di vita.


Alfredo e il nonno erano come dei filosofi, parlavano sempre tra loro con un’espressione grave, annuendo e gesticolando, poi li vedevi di sera, alle feste paesane, vestiti elegantemente, a ballare il liscio con le loro signore, impettiti e fieri.
Erano i filosofi della vita.
I nonni mi portavano sempre con loro, sulla vecchia 128 verde pistacchio e così passavo le serate ad aspettarli e a vederli ballare, mentre succhiavo un ghiacciolo e correvo tra le balle di fieno.
Ancora oggi, in quelle aie ormai deserte, se chiudo gli occhi, mi sembra di risentire il suono di quelle risate, il profumo di quei vestiti a fiori e la voce della nonna che ci chiamava perché il pranzo era pronto.
Alfredo era già molto vecchio, con una mano si reggeva al bastone anche quando era seduto, mentre con l’altra teneva una sigaretta, una MS, che assaporava come se fosse sempre l’ultima, socchiudendo gli occhi ad ogni boccata, piccola, per farla durare di più.


Quel giorno ero passato a trovarlo per fargli gli auguri di Natale, dopo essere andato a trovare i nonni al cimitero e mi aveva invitato per pranzo.
Era per lui un giorno speciale e così aveva chiesto a Franca, sua figlia, di cucinare l’arrosto e con il sugo di condirci i ravioli, quelli del plin, fatti in casa, come ci teneva a precisare.
Ci siamo seduti al tavolo della sala da pranzo, lui continuava a fumare, nonostante Franca lo sgridasse a ogni sigaretta che lui accendeva, ma lui mi guardava e sorridendo alzava le spalle e mi faceva cenno di versargli un po’ di barbera, giusto due dita, ma non di più.
Quello era un giorno speciale, Alfredo lo ripeteva con tristezza: era il giorno in cui più di 70 anni prima, suo fratello veniva ucciso senza pietà.
Alfredo si fece serio, spense la sigaretta e mi raccontò ancora una volta quella storia, un racconto che sentivo da sempre, che ancora oggi non mi stancherei di ascoltare e che avrei dovuto registrare per riascoltarlo anche oggi che Alfredo non c'è più.
Oggi che la sua voce e quella dei miei nonni mi mancano.
Oggi che anche quell’ultima parte della mia infanzia se n'è andata per sempre.

 


Era l’inverno del 1944, Sergio aveva 18 anni, era un idealista, un sognatore. Sergio cercava vendetta, il suo dolore era ancora troppo forte.
In quel momento, mentre camminava, stava pensando alla sua famiglia, con il fucile che s’era fatto pesante e l’impugnatura continuava a percuotergli la gamba seguendo il ritmo rapido del suo passo.
Pensava anche a Teresa, seduta al caldo della cucina a legna, illuminata dalla lampada a petrolio.
Non poteva raggiungere i compagni al sorgere del sole: lungo i sentieri fangosi si potevano ancora incontrare le pattuglie tedesche, nonostante il freddo intenso di quei giorni di dicembre.
Le mani erano congelate e, sotto al pastrano, era madido di sudore.
Ansimava, faticava a mantenere l’equilibrio con i piedi che sprofondavano nella palta di quegli ultimi giorni di pioggia.
Nello stomaco c’era solo il ricordo del formaggio e del brodo, quello buono di pollo, che Teresa cucinava nelle occasioni importanti, un pasto veloce, consumato pochi minuti prima di mettersi in cammino.
Quella era per lui una missione molto importante ed estremamente pericolosa.
Teresa lo sapeva e aveva pianto mentre preparava la cena. Non avevano parlato, che cosa si sarebbero potuti dire, del resto?
Lei non aveva alzato lo sguardo per fissare i suoi occhi, Sergio avrebbe visto quello che in fondo sapeva benissimo, avrebbe visto il suo amore e occhi d’addio.
Pensava a Teresa e improvvisamente ebbe paura.
Era da solo lungo quel sentiero che conosceva bene, sentiva il rumore dei suoi passi, del suo respiro e il lontano abbaiare di qualche cane, randagio come lui.
Nessuna civetta quella notte. Nulla.
Era come se l’inverno avesse gelato anche la natura, l’unica cosa che gli pareva viva era la sua paura.
La guerra aveva voluto accanirsi con lui, portandogli via la famiglia: il padre, la madre e la sorellina erano morti in un incendio scoppiato a causa di una bomba caduta vicino alla loro cascina, il fratello maggiore invece era stato catturato dai tedeschi e portato via, nessuno sapeva dove, perché si diceva che fosse un partigiano.
A casa era rimasto solo Alfredo che aveva trovato lavoro a Torino come garzone presso un fornaio.
Avevano litigato, Sergio non capiva come Alfredo potesse arrendersi così, come non pensasse di vendicare col sangue la morte della sua famiglia.
Alfredo era andato via, era partito per la città, che per quei tempi era come andare dall’altra parte del mondo.
I due fratelli erano arrabbiati, non si erano salutati.
Sergio aiutava papà nei campi, aveva finito le elementari e aveva imparato a leggere, a scrivere e a far di conto.
Amava leggere i libri che il prete del paese gli portava di tanto in tanto, soprattutto in estate quando faceva il giro delle cascine con la sua bicicletta e la sua sottana nera.
Sergio aveva deciso di diventare partigiano e si era arruolato nella brigata “Servadei”, montanari per vocazione, perché era molto amico di un ragazzo che per loro faceva la spia.
In quei giorni c’erano stati molti combattimenti, c’erano stati molti morti in entrambi i fronti e i tedeschi avevano chiamato rinforzi, compivano rastrellamenti ed erano ubriachi di furore.
Lui aveva paura, aveva solo 18 anni, così si era rifugiato nei boschi del Mottarone, in allerta come un animale braccato.
Quella notte nello zaino portava pistole e munizioni e una cartina abbastanza dettagliata dei punti di appostamento dei tedeschi.
Nonostante le fitte al costato, manteneva il suo passo spedito, la resistenza dei compagni dipendeva da lui.
Grazie a Sergio, i partigiani della "Servadei" erano riusciti più volte a sganciarsi in occasione dei rastrellamenti.
Quella, per Sergio, sarebbe stata l’ultima “camminata”, la sua ultima missione.
A lui, ai suoi diciotto anni e al suo fisico snello, erano affidate generalmente queste “camminate”.
Era veloce Sergio, conosceva ormai quei sentieri come le sue tasche, sapeva dove e quando fermarsi.
Era diventato un animale di montagna.
Sergio arrivò al casolare che non era ancora sorto il sole, stremato, sfinito dal freddo e coi piedi insensibili.
Pensava alla minestra calda di Teresa, chiuse gli occhi e si appoggiò a una catasta di legna.
C’era tensione, nessuno aveva voglia di festeggiarlo, né di stappare una bottiglia di rosso.
Beppe non era tornato quella notte, era sceso a valle per cercare una via. Ormai era l’alba e di lui ancora nessuna notizia.
Alle 6:30 si iniziarono a sentire i primi rumori che divennero via via sempre più forti.
I latrati dei cani erano sempre più vicini e gli ordini urlati dei tedeschi sempre più vicini.
Li avevano accerchiati, non avevano possibilità di fuga. Il gruppo era impreparato a difendersi, erano troppi.
Verso le otto del mattino i tedeschi irruppero armati fino ai denti di mitragliatori, granate e odio.
Erano un centinaio, militi della Wermacht. Feroci e determinati, guidati da una spia.
Nulla avrebbero potuto Sergio e i suoi.
Alla prima raffica Sergio cadde ferito ad un fianco e venne fatto prigioniero.
Nel rapido combattimento alcuni riuscirono a fuggire nel bosco salendo verso i sentieri degli alpeggi, la maggior parte venne uccisa oppure ferita e catturata.
I tedeschi torturarono quei ragazzi, li umiliarono ridendo sguaiatamente e urlando in continuazione.
Si divertivano a pisciare dappertutto, sulle vettovaglie, sui giacigli e sui cadaveri.
Sergio sapeva che per lui non ci sarebbe stato scampo, sapeva che l’avrebbero finito lì fuori e non riuscì a trattenere le lacrime.
Pianse pensando a sua madre e ad Alfredo, gli chiese scusa per non averlo salutato.
Pianse pensando a Teresa, sapendo che lei sarebbe morta con lui.
Un tedesco lo vide e non riuscì a trattenere l’ira – Cos’hai da piangere tu, piccola femmina schifosa? –
Il gesto fu rapido, nemmeno pensato, con una pugnalata gli mutilò un occhio.
Con l’aiuto di un compagno, lo portarono a ridosso di un grande albero, lo spogliarono, lo percossero e lo evirarono.
Sergio fu finito colpito col calcio del fucile sul cranio e, infine, gettato nel fuoco della cascina incendiata.
Sergio aveva diciotto anni e fu ucciso nel dicembre del 1944, di lui non è rimasto nulla, se non il ricordo e una medaglia d’argento al valor militare alla memoria.

 


Quando Alfredo finì il racconto, io lo guardai in silenzio, lui si accense una MS e si portò un fazzoletto bianco a quegli occhi profondi e azzurri come il mare, circondati da lunghe rughe.
Erano gli occhi di un uomo che aveva pianto tanto e quel giorno compresi perché quelle rughe erano così profonde.









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