IL TRENO DEI DESIDERI (ALL'INCONTRARIO VA?)
la stanza degli ospiti
22 novembre 2021
Il treno dei desideri (all'incontrario va?) - Michele Maino | Stefano Manera Blog

[ Articolo di Michele Maino. ]

 

Fin da giovanissimo sono sempre stato interessato a indagare la natura del desiderio, per stabilire, soprattutto, quanto spazio concedergli nella mia vita, forse perché i suoi morsi, nell'adolescenza, mi parevano troppo pericolosamente tenaci: cibo, relazioni, potere...

 

Sono stati preziosi, in questo senso, sia gli anni della formazione, grazie allo studio della filosofia, sia il lavoro di giornalista, che ho avuto la fortuna di esercitare quando ancora era una professione onorevole. Da quando, poi, ho imboccato il mio cammino interiore, poco prima dei trent'anni, ho scoperto su questo tema molte altre cose, anche di natura spirituale, indagandole dall'interno, attraverso la pratica della meditazione vipassanā, che mi ha portato, nel tempo, a una maggiore consapevolezza dei condizionamenti che entrano in gioco quando siamo chiamati a rispondere al richiamo del piacere.

 

Anche gli anni che ho dedicato al mestiere di cuoco sono stati preziosi per osservare, da un punto di vista privilegiato, i meccanismi dell'appetito, quella pungente sollecitazione a soddisfare il bisogno di cibo e, per estensione, il desiderio di appagamento, il perseguimento del piacere materiale in senso lato. Nonostante le molte professioni che ho esercitato nella mia vita, però, sono e resto un appassionato di lingue, antiche e moderne, e lo studio dell'origine delle parole è uno dei miei strumenti preferiti per esplorare il pensiero e la realtà. Tuttavia, in controtendenza alla moda del momento di trasformare ogni riflessione in un'accattivante formuletta da bacio Perugina, non ho ricette da offrire ma mi limito a ragionar delle parole, gli ingredienti con cui son cucinati i ragionamenti.

 

Il confine tra bisogno, desiderio e brama è semanticamente molto labile e la natura stessa del termine, ambigua e di difficile definizione in quanto riferita a una "sconosciuta realtà conosciuta", per usare la bella espressione di Sant'Agostino (Agostino d'Ippona, Lettera 130 a Proba, Edizioni Paoline, Milano 2009), è soggetta a diverse interpretazioni, anche diametralmente opposte tra loro: per alcuni, la soddisfazione dei desideri e il raggiungimento della felicità costituiscono il senso stesso della vita. Per altri, lo scopo ultimo dell'esistenza è invece proprio quello di acquietare gli scomposti moti del desiderio che ribollono tumultuosi nella nostra interiorità e che sono all'origine della miseria e dell'infelicità umane.

 

Alcuni dizionari definiscono il desiderio "uno stato di affezione dell'io", formulazione ancora equivoca nella quale il materialista potrà ravvisare il senso di "affetto" o di "passione", per corroborare la propria visione romantica del mondo, mentre il cultore della spiritualità orientale vi scorgerà innanzitutto l'accezione di 'condizione anormale dovuta a una causa patogena', un'afflizione, quindi, un disordine dello spirito. L'etimo del termine parrebbe da ricercare nel latino dēsīderō (da de e sīdŭs, sideris, 'stella') che, secondo alcuni, proverrebbe dal linguaggio astrologico con il significato di "interrogare le stelle" o "(avvertire) la mancanza di stelle", ergo "appetire qualcosa che manca", sebbene di questo uso non vi sia traccia nella letteratura latina.

 

 

Perdere la strada?

Tra le paretimologie* più interessanti troviamo l'ipotesi di un'origine marinaresca del termine: dēsīderāre in quanto "perdere le stelle", "andare fuori rotta", "deviare", dunque "smarrirsi" (sul sentiero verso il divino). Questo senso del desiderio come deviazione dal cammino interiore o dalla strada retta che porta a Dio lo si intuisce tra l'altro nell'etimo di moltissime parole semanticamente legate al piacere sensuale: divertimento, dal latino divertĕre, composto di di(s)- e vertĕre, "volgere", letteralmente significa "volgere altrove, allontanare, stornare (lo sguardo)"; distrazione, dal latino distrahere, composto da di(s)- e trahere, "trarre, tirare", significa "tirare via, allontanare, distogliere", "frastornare da un dato ordine di azioni o pensieri"; svago è un deverbativo da exvagare, composto di ex-, "via da", e vagari, "vagare", e significa "andare vagando, sollevare da attività impegnative"; (in)trattenimento, dal francese rinascimentale entretenir, a sua volta dal latino intra-, "dentro", e tenēre, "tirare, tenere", ha il senso di "tenere distratto", "mantenere chiuso dentro".

 

Questi significati rimandano a una concezione della vita terrena dell'uomo intesa come prova divina, come scuola di perfezionamento animico, ricca di tranelli da superare, insidie, tentazioni e insegnamenti da trarre, tipica della tradizione giudaico-cristiana ma che si attaglia anche perfettamente, seppur per motivi diversi, a gran parte della spiritualità orientale: nel pensiero indiano, culla della religiosità asiatica, i desideri sono infatti quasi sempre considerati la reazione della mente ignorante, inconsapevole e indisciplinata alle sollecitazioni dell'illusorio mondo fenomenico della māyā. Dedicarsi alla loro soddisfazione, alla ricerca del piacere, è dunque non solo ingannevole ma anche dannoso: ogni atto, parola o pensiero dell'uomo allarga infatti la complessa e insondabile rete di cause ed effetti (karma) che lo mantiene prigioniero del mondo illusorio della māyā e quindi dell'incessante ciclo di rinascite e morti (saṃsāra).

 

Nell'induismo, lo scopo ultimo del devoto è la liberazione (mokṣa, mukti) da questa illusione, che egli persegue o per intercessione di esseri superiori, e cioè con la devozione (bhakti-mārga), o con la conoscenza (jñāna-mārga), o con il sacrificio rituale (karma-mārga) o seguendo gli Agama, il tantra, la trasformazione alchemica di se stessi, al fine di fondere nuovamente la propria 'anima' (ātman) con l'Uno (Brahman).

 

Nel Jainismo, l'estinzione del karma e la liberazione dal circolo vizioso di morti e rinascite si ottiene, sull'esempio del fondatore Mahāvīra, perseguendo la rinuncia totale, la mortificazione del corpo e la radicale non violenza (ahiṃsā) nei confronti di ogni creatura: "L'uomo è impastoiato perché continua ad agire e a fare dato che ogni azione porta ad accumulare nuovi legami; la via che conduce alla vittoria consiste perciò nell'inazione assoluta" (Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell'India, Adelphi, Milano 1993, p. 57).

 

Nel Buddhismo si pone l'accento sul raggiungimento del risveglio (bodhi), la cessazione (nibbāna, termine pāli dal doppio etimo possibile: "cessazione del soffio", dunque "estinzione" o "libertà dal desiderio") dell'ignoranza metafisica (avijjā), che non è una mancanza di nozioni da colmare, bensì una massa di informazioni, inclinazioni, credenze, in pratica molta parte di quello che spesso si definisce con orgoglio carattere o personalità, che impediscono di vedere la realtà per quella che è, e cioè impermanente e priva di un sé, portando a dare valore alle distrazioni mondane anziché impegnarsi, con la meditazione, a sciogliere il proprio karma passato e a cessare di accumularne di nuovo, disciplinando l'inconsapevole e inesausto turbinio dei desideri: senza padronanza di sé, desiderio e avversione agitano e confondono la mente portando l'uomo a sempre nuovi pensieri, parole e azioni inconsapevoli, causa di ulteriore karma, che lo condanneranno a sempre nuove rinascite e al perdurare della sofferenza (dukkha) e della prigionia nel saṃsāra.

 

 

Dare forma al proprio mondo?

Un'altra paretimologia sembrerebbe collegare dēsīderō all'azione di "ottenere qualcosa dalle stelle", o nel senso che, per insistente e devota preghiera, gli dèi alla fine la concedono, o perché, con determinate tecniche, si invita l'universo a reagire all'intenzione, si informa la realtà affinchè si organizzi nel modo desiderato, si sollecita nel mondo la manifestazione concreta di quelle forme archetipiche e immateriali di tutte le cose che Platone chiamava idee e che collocava nell'iperuranio, l'empireo mondo degli astri, al di là del cielo: una visione del mondo antropocentrica, alla base di quella che è conosciuta come 'legge dell'attrazione', alla quale viene oggi pedestremente ricondotta tutta una fitta galassia di autori, filosofi, esoteristi e insegnanti dall'Ermetismo al pensiero positivo, dal Sufismo a Vadim Zeland, da Madame Blavatsky a The Secret.

 

Questa interpretazione mette in luce un interessante aspetto del desiderio: se formulato con la dovuta forza, consapevolezza e stabilità, tenderebbe infatti ad avverarsi.

 

Uno scienziato potrebbe spiegare il fenomeno come effetto della produzione di endorfine e catecolamine che aumentano le prestazioni rendendo più probabile che il futuro si svolgerà come desiderato o elaborare complessi modelli di interazione quantica tra materia e coscienza, mentre un mistico sosterrebbe invece che l'immaginazione e la visualizzazione hanno effettivamente il potere di piegare la realtà alla volontà o che, con determinati esercizi, ci si possa fare strada attraverso l'infinita serie di dimensioni parallele del multiverso fino agli oggetti dei desideri. In questo caso, però, bisognerebbe prestare agli esercizi molta attenzione, una facoltà oggi non comune, creando un diorama interiore molto preciso delle circostanze in cui il desiderio si avvererà con quanti più dettagli e precisione possibili: non sia mai che l'universo, nel suo cieco desiderio di darci ciò che abbiamo richiesto, lo faccia a modo suo, diversamente da come avremmo voluto e allora saremmo daccapo a desiderare di non averlo mai desiderato... Per dirla con le salaci parole di Oscar Wilde, "Ci sono due tipi di tragedie nella vita: una è perdere ciò che più si desidera, l'altra è ottenerlo" (Lady Windermere’s Fan: A Play About a Good Woman, 1892).

 

 

Oriente contro Occidente?

L'abbondanza, in Oriente, di simboli ancora molto eloquenti in questo senso (per esempio il Buddha Śākyamuni sotto l'abero della bodhi che ottiene l'illuminazione dopo aver sconfitto la tentazione del malvagio Māra e delle sue figlie Taṇhā, "bramosia", Arati, "insoddisfazione", Rāga, "passione", l'ascia che il dio elefante Gaṇeśa regge nella mano superiore destra che rappresenta la recisione delle catene dell'attaccamento alle cose mondane, il nano Apasmāra schiacciato sotto il piede dello Śiva Naṭarāja che simboleggia il superamento della brama, rāga, e dell'avversione, dveṣa...), parrebbe fare pensare che l'importanza di controllare i desideri sia una prerogativa del pensiero orientale.

 

Ma anche nel pensiero occidentale non manca una profonda riflessione sul problema del desiderio: il mito greco narra che Afrodite, esasperata dalle intemperanze del figlioletto Eros, chiese consiglio alla ninfa Temi la quale rivelò che questi non si sarebbe mai placato, non sarebbe mai maturato finché non avesse avuto un fratello da amare. E così nacque Antérōs: quando era in sua compagnia, Eros diventava docile e responsabile ma non appena i due fratelli venivano separati, il dio greco dell'amore tornava a essere irrequieto e ossessivo.

 

Al dilemma di cosa fare con le passioni, alcuni, come i filosofi stoici, raccomandavano di dominarle con il raggiungimento dell'apatìa, (composto da ἀ- privativo e πάϑος, 'passione', 'dolore', dunque 'mancanza di turbamento') che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. Per altri, come i filosofi epicurei, il raggiungimento del piacere rappresentava invece la realizzazione del sommo bene: da qui si struttura una visione materialista del mondo che vede nella forte volizione e nell'ostinazione a ottenere ciò che si vuole i tratti che fanno di un individuo un eroe.

 

Con l'avvento del Cristianesimo, ritorna centrale il tema della salvezza dell'anima sebbene non più legato alla metempsicosi: la vita terrena non è più una tappa sul lungo cammino di perfezione dell'anima attraverso le varie reincarnazioni, ma un'occasione unica dalla quale dipendono salvezza o dannazione eterne. Per essere un buon cristiano, il fedele è consapevole che "Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla" (Salmo 23:1), pregandolo "non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male". Gesù invita a non ingombrare la coscienza con futili preoccupazioni: "Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete" (Matteo 6:25). Il buon cristiano che sublima gli impulsi con l'impegno, la preghiera o l'esicasmo, è più portato a intuire nella rinuncia un'opportunità di liberazione piuttosto che una tragica privazione e in questo rassomiglia al buddhista, che non condanna il piacere in sé ma l'attaccarvisi, il desiderarlo.

 

Alla lunga lista di desideri carnali e non, il cristiano aggiunge però anche quello della propria salvezza oltremondana, per raggiungere la quale elabora tutta una complessa contabilità morale delle azioni meritorie e dei peccati che regola la corsa all'accaparramento dell'amore di Dio e l'ottenimento della salvezza. Il peccato da inciampo (interessante una paretimologia di questo termine: pēs captum, "piede preso", "incastrato" ovvero una trappola, un passo falso che rallenta, che distrae), la distrazione sul cammino, diventa colpa da espiare, contaminazione mortifera, irrimediabile perdita del Paradiso e, per corollario, il piacere diventa qualcosa di sbagliato in sé, sporco, immorale e dunque meritevole di castigo. Smarrito nella sua effimera cartografia del bene e del male, perlopiù il cristiano dichiara guerra agli impulsi ricacciandoli negli abissi dell'inconscio dalle cui oscure profondità questi, non visti, tormenteranno la sua vita.

 

Con Freud, il desiderio assurge addirittura a causa prima di ogni attività umana, il motore stesso della vita: "Desiderio è e resta la parola chiave, la parola elettiva, della psicanalisi,” scrive a questo proposito lo psicanalisa Massimo Recalcati. Bene, importante far emergere dall'ombra il nostro incontenibile Mister Hyde e lavorare sulla psiche per permetterci di vivere in armonia i vari aspetti della nostra vita, ma attenzione a non patologizzare la continenza, a non lasciarsi andare al Leitmotiv commerciale "ogni lasciata è persa", come se astenersi dal libero sfogo delle bramosie più smodate sia anormale, uno spreco di possibilità, il sintomo di una tara dello sviluppo: probabilmente è ciò che pensano di Chihiro i suoi genitori mentre, stregati dagli eccessi, si trasformano in porci nella toccante scena del film di Hayao Miyazaki, La città incantata.

 

* Per paretimologia (chiamata anche "etimologia popolare") si intende il processo con cui un vocabolo viene interpretato sulla base di somiglianze fonetiche o analogie di significato e non attraverso evidenze storiche e linguistiche. È importante tuttavia ricordare che, in quanto scienza, l'etimologia è forse tra le più instabili e fragili e che conoscere i meccanismi in base a i quali le parole si trasformano nel tempo e nello spazio non dà necessariamente accesso ai significati esoterici che vi sono stati crittografati o steganografati all'interno, per esempio quelli derivati dai linguaggi iniziatici e segreti come il langage des oiseaux.

 

[ Articolo di Michele Maino. ]

 

-----

 

Michele Maino è un intellettuale eclettico. È un giornalista che nel corso della vita si è dedicato alla cucina divenendo chef e gestendo uno dei migliori ristoranti vegani di Milano (chiuso, per fortuna, poco prima della pandemia).

Attualmente si occupa attivamente di ricerca interiore che pratica principalmente attraverso le antiche tradizioni dello sciamanesimo amazzonico.

Mi legano a lui una solida amicizia e la condivisione di profonde esperienze nell'esplorazione degli stati della coscienza.

È possibile seguirlo su Facebook e Instagram.









web design