Venerdì sera ho viaggiato ancora una volta nella città, facendomi largo a fatica durante la settimana della moda, tra automobili di lusso, ragazzini vestiti come il principe Carlo e Camilla e cinquantenni vestiti da liceali.
È quella settimana in cui vorresti con tutto te stesso essere altrove, quella settimana in cui vorresti sparire proprio come faceva il comandante Kirk col suo teletrasporto, quando rientrava sull'Enterprise poco prima di finire carbonizzato dal laser di qualche extraterrestre molto cattivo.
Solo che io non sono il comandante Kirk e con me non c'è nessun Signor Sulu pronto a mandare la mia vecchia Fiesta a velocità warp.
Ho viaggiato quindi sempre più lentamente, a singhiozzo, a bordo di questa macchina di terza mano con il parabrezza appannato, perché l'aria condizionata era rotta o forse non c'era mai stata.
Milano era vestita del traffico delle peggiori occasioni, condito da una leggera e viscida pioggia che rendeva tutti più nervosi e ansiosi di superarsi, stringersi e scalmanarsi attraverso i finestrini chiusi e insonorizzati.
La macchina mi ha portato con fatica verso la periferia sud, in fondo a via Ripamonti, dove il cemento lascia posto al fango e alle discariche, ai gruppetti di roulotte e di casupole di plastica e lamiera, alla brughiera glassata dalla brina e a una nebbiolina grigia e unta da cui spuntano all'improvviso le curve d'acciaio delle tangenziali.
Strade perennemente dilaniate dai lavori in corso, con i semafori lampeggianti, riflettenti il pallido giallo sullo specchio grigio dell'asfalto.
In questa regione tra luce e ombra esiste una zona ai confini della realtà chiamata Residence Ripamonti.
Io, mio malgrado, ci sono dovuto andare, ci sono dovuto entrare, lei mi stava aspettando per parlarmi di una cosa importante, così mi aveva detto al telefono, con la voce di una che si era appena svegliata o che aveva già preso troppo sonnifero.
Probabilmente voleva dirmi che era finita per l'ennesima volta, anche se il tema saliente della telefonata era stato la vaschetta dello sciacquone che si era rotta, gettandola in una cupa disperazione, e che io, naturalmente, avrei dovuto riparare.
Al Residence, quella volta, ci ho trascorso più di 24 ore, alternando il ruolo di amico, psicologo, amante e confessore; 24 ore in cui ho visto uno dei volti dell'inferno.
Ma andiamo con ordine.
Il Residence è una struttura faraonica, una gigantesca mezzaluna di cemento armato, un comprensorio con migliaia di appartamenti in affitto: è enorme, gigantesco, onnicomprensivo, autosufficiente e intorno a lui non c'è praticamente nulla di civilizzato per chilometri.
A meno che non si voglia considerare civiltà l'agglomerato dormitorio di Pieve Emanuele e qualche centro commerciale poco distante.
Nel Residence vivono le tipologie più differenziate di persone: dalla coppia di pensionati che non si può più permettere l'affitto di Milano, alle cubiste rumene che lavorano nei night della città e che di giorno frequentano i centri commerciali in tuta da ginnastica, agli infermieri da poco arrivati a Milano, con ancora nel cuore il sole, il mare e la parmigiana di casa, al musicista attempato con gli stivali da cowboy e il gilet di ecopelle, all'ex avventuriero coi capelli ossigenati e le basette imbiancate, approdato con sorpresa in un territorio spaventoso, inanimato, freddo, con il suo piccolo cuore spezzato, lontano da tutto e da tutti, sebbene con la metropolitana a pochi chilometri.
Un posto adatto per fuggire, ma senza scomodarsi troppo.
Tuttavia, quello che più mi ha impressionato, è che il Residence è spaccato a metà dalle sue due grandi anime: da un lato poliziotti, carabinieri, finanzieri, guardie giurate e altri tutori della legge che hanno bisogno di un posto dove trascorrere brevi periodi di dislocamento e dall'altro una buona fetta di piccola e media criminalità milanese che traffica in droga, ricettazione e prostituzione, tutti insieme, sempre e comunque all'ombra di un finto anonimato.
Centinaia di pistole e coltelli che girano contemporaneamente per gli stretti budelli del Residence, incontrandosi tutti i giorni ed evitandosi con cura.
I buoni e i cattivi sotto lo stesso tetto, alla stessa mensa, sullo stesso ascensore.
Una piccola città di frontiera nella città, dove la legge dello Stato lascia il posto a quella degli sguardi, come ai tempi del far west, ma a due passi dalla Paullese.
Quando arrivo al Residence è già buio, sacchetti di plastica rotolano spinti dal vento sul cemento spaccato dal freddo dell'immenso parcheggio antistante la reception.
Cadaveri scheletrici di carrelli del vicino Auchan giacciono riversi nelle poche piazzole verdi disseminate di lattine e bottigliette di plastica vuote.
Qualche motorino abbandonato, alcuni cassonetti arrugginiti, sterpaglie essiccate alle basi dei lampioni intermittenti.
Qua e là qualche auto con i vetri appannati fa capire che al suo interno c'è vita e forse un po' di amore.
Scendo dalla macchina, mi assicuro di aver chiuso bene la portiera, assecondando un istinto di conservazione ancestrale, cammino lento nel centro del parcheggio con la borsa contenente la cena e la colazione.
Mi guardo intorno furtivo studiando nella mia mente un'ipotetica via di fuga, mentre una brezza gelida muove le grandi bandiere di lamiera sul tetto dell'edificio.
Mi avvolgo nella sciarpa e mi stringo profondamente nella giacca, ma ho sempre più freddo e le gambe si fanno, passo dopo passo, sempre più rigide.
Scorgo da lontano due vecchie, sono vestite con cappotti molto più grandi della loro taglia, mi vengono incontro, una stringe tra le mani un crocifisso, l'altra un libro e mi guarda fissandomi negli occhi.
"Non entrare!" mi fa con tono severo e stridulo.
La vecchia lo dice piano, quasi sussurrando, avvicinando la sua bocca al mio viso e mi allunga un opuscolo dei testimoni di Geova dal titolo "La nostra privacy è in pericolo?" che guardo sgomento, poi si allontana salmodiando, insieme alla sua silenziosa compagna, sparendo a poco a poco nel buio del piazzale.
Il Residence è come una grande chiesa, una cattedrale del nulla, con il suo altare in rovere sbiancato che è la reception.
Dietro il lungo bancone, l'officiante pare essere una hostess biondo platino dai capelli incollati, con lo sguardo stanco sotto sopracciglia nere malamente rifinite, con lunghe unghie di gel decorate da improbabili e microscopici disegni, è alle prese con un rotocalco di qualche giorno prima, da cui nemmeno alza lo sguardo quando viene investita dal vento gelido all'aprirsi della porta.
Comincio ad aggirarmi per i lunghissimi corridoi illuminati da freddi neon: sono curvi, dato che seguono la forma a semicerchio dell'edificio, sembrano non finire mai e forse è vero, visto che non sono mai riuscito a vederne la fine, sebbene li abbia percorsi ripetutamente, mentre cercavo l'appartamento dove sarei dovuto andare.
Cammino sulle passatoie di velluto rosso consumate dal tempo, circondato da pannelli in finto legno, la filodiffusione regala in ogni angolo la vocina storpia di Nek, a basso volume, interrotta malamente da una pubblicità di un noto fast food che invita a consumare panini a prezzi bassissimi.
Alle pareti sono appese fotografie sbiadite del Residence che di volta in volta sembra l'Overlook Hotel, la stazione Luna di Spazio 1999 oppure la sede del KGB a Mosca.
Gli appartamenti sono molto piccoli: monolocali con moquette ignifuga, arredati con mobili economici e pareti così sottili che riesci a sentire persino i sospiri dei tuoi vicini e a immaginare tutte le storie che convivono in quell'alveare.
Io so che in quel luogo la realtà va ben oltre l'immaginazione, infatti quando passi davanti alle porte senti la gente parlare, tossire, russare o vomitare e il tutto dà corpo a un incessante rumore di fondo di umanità, sebbene io non creda che il Residence sia un luogo adatto alla vita umana, pur brulicandone.
Capita così di incontrare alcune tipologie con ogni probabilità esclusive e più significative di questa aberrante forma di agglomerato.
C'è il piccolo malavitoso con i capelli lunghi e unti, odora di una orribile miscela di profumo e sudore e ha sempre la barba di tre giorni anche quando si è appena rasato; è possessore truce di una Golf con i cerchi in lega cromata da 19, i vetri oscurati compreso il parabrezza e il motore truccato e rombante come quello di un F14.
Guida col gomito perennemente fuori dal finestrino, anche quando fuori è sottozero, per meglio sottolineare, con la baldanza della guida, l'arrogante dominio in quel territorio abbandonato da Dio e dagli uomini.
C'è lo sbarbato del piccolo malavitoso, in sella ad uno scooter smarmittato, col viso rosso e il naso gocciolante per il freddo, ma guai a coprirsi, perché meglio una polmonite al rischio di sembrare debole.
È l'individuo più piccolo, il guappo, colui che ambisce a farsi strada nel mondo della criminalità.
Non ha mai finito le medie, sta dietro al piccolo malavitoso e ne esegue gli ordini. Sono piccoli ordini come andare a prendere le sigarette, parcheggiare la Golf o portarla all'autolavaggio ogni 2 giorni.
I due sono come Rosencrantz e Guildenstern o meglio, come Nonna Papera e Ciccio.
Il loro compito è ricordare a tutti che Il Residence è territorio della criminalità organizzata e per questo motivo girano sempre con una tuta aderente in acetato che mette in risalto una perenne erezione da loro spacciata per pistola.
C'è poi il poliziotto fuori servizio. Si riconosce perché tiene costantemente in mano uno smartphone grande come un forno a microonde e alle orecchie delle cuffiette per far capire di essere sempre in contatto con la centrale, proprio come nei film americani vecchio stile, quelli coi tombini da dove esce il vapore.
Sogna una sparatoria in piena regola e il suo idolo è l'ispettore Callaghan, quando da solo stermina un'intera banda di sanguinari delinquenti portoricani con una 44 magnum da 6 colpi.
Anche lui ha i capelli neri, intrisi di gel, profuma di Denim Musk e ha la barba di tre giorni anche quando se l'è appena fatta.
Il compito del poliziotto all'interno del Residence è quello di ricordare alla malavita che c'è sempre qualcuno pronto a far rispettare ordine, disciplina, leggi, regolamenti e manuali di istruzioni.
Per questo motivo gira con una tuta aderente in acetato che mette in risalto la pistola, da lui spacciata per una perenne erezione.
C'è la fidanzata del piccolo malavitoso: aspetta tutto il giorno in camera che lui torni, ha l'aria stanca e perennemente scontenta, sfoglia Vip masticando rumosamente un chewingum e guarda, senza capirci un granchè, Uomini e Donne, sognando che un giorno compaia anche nella sua vita un bellissimo tronista abbronzato, con le sopraciglia ad ali di gabbiano.
A qualsiasi ora è pronta per uscire e seguire il suo uomo al bar sottostante, per vederlo fumare e bere birra fino a notte fonda.
C'è la fidanzata del poliziotto fuori servizio: aspetta tutto il giorno in camera che lui torni, guarda la Vita è in Diretta, conosce tutto dei ragazzi del Grande Fratello e segue i suggestivi consigli di qualche astrologo, sognando che il suo ragazzo accetti quel posto nei servizi segreti di cui le ha parlato, così da poter finalmente fare la bella vita in uno di quei posti dal nome impronunciabile, come nei film di James Bond.
Poi finalmente il suo uomo arriva e, ritornando alla realtà, possono uscire insieme, sulla loro Alfa chilometri zero, verso le raffinate mete dell'hinterland milanese: dal Kinepolis con trentotto sale, di cui 19 danno il sequel di "3 metri sopra il cielo" e le altre 19 "Vacanze di Natale 27", al disco-lap-trance-bar Amenorrea (Amnèsia, Dementia, Insomnia, Insania, Divina Follia, Katatonya, Oxxexxione e tutti i principali disturbi psicofisici purtroppo erano già stati utilizzati) dove consumeranno rigorosamente un piatto tex-mex, cioè cucinato seguendo scruplosamente la ricetta e la tradizione di una cultura mai esistita.
Fatto questo, torneranno al Residence e, vivendo nello stereotipo che la notte è giovane ed essendo notte e loro giovani, dopo un attimo di panico da sillogismo, si addormenteranno sul divano della loro camera, con la tv sintonizzata su qualche canale locale che trasmette le televendite delle automobili.
Arrivano finalmente le quattro del mattino del giorno dopo e posso incamminarmi verso casa, abbandonando quel mondo a parte, quel non luogo, quell'isola del Dr. Moreau, non senza un pizzico di nostalgia e di stupore.
Lei mi ha detto che è finita definitivamente, una volta per tutte.
Me l'ha detto mangiando tramezzini freddi, patatine alla cipolla, biscotti con le gocce di cioccolato e bevendoci sopra un vodka lemon, tanto era la cena e la colazione che avevo portato per celebrare l'atmosfera del luogo.
Là dentro mi sembra di averci trascorso molto più tempo, giorni e giorni e il senso che mi invade è di stordimento e di nausea: farò fatica a rientrare nel caos della città.
Ho addosso la stessa sensazione che provo quando faccio rientro a Milano, dopo un bel weekend al mare, quando la stessa nausea mi assale non appena leggo il cartello "Binasco", pochi kilometri prima della barriera dell'autostrada, quando tutti i milanesi si imbruttiscono simultaneamente, con un sincronismo unico, come quello degli storni nei cieli di Roma.
Per fortuna è notte fonda e questo mi concederà più tempo e calma per riabituare gli occhi a vedere la quasi normalità in cui mi muovo tutti i giorni, fatta di uomini e donne che quotidianamente, si muovono frenetici, seguendo un ordine apparente, senza tuttavia capire bene il perché lo facciano.
Domani però, ho deciso, andrò a comprare una di quelle palle di vetro chiamate Biosfera, dove micro organismi nascono, vivono e muoiono nella completa ignoranza di ciò che sono e dei limiti assurdi del loro personale universo.
Ho brillantemente stabilito che la chiamerò Residence, Residence Evil.